Una volta timbrato il cartellino, il tempo trascorso in azienda è orario di lavoro a fini contributivi
Deve essere ricompreso nell’orario di lavoro l’intero arco temporale comunque trascorso all’interno dell’azienda, a meno che il datore di lavoro non provi che il prestatore d’opera sia ivi libero di autodeterminarsi ovvero non sia assoggettato al potere gerarchico.
È questo il principio che emerge da due decisioni della Sezione Lavoro della Cassazione (nn. 12097 e 12098 del 17 maggio), in una vicenda scaturita da un accertamento ispettivo a seguito del quale l’Inps richiedeva il pagamento di contribuzione relativa ad ore di lavoro straordinario non registrate e svolte da vari dipendenti impegnati in attività di manutenzione presso un grosso stabilimento siderurgico.
La questione all’attenzione della Cassazione attiene alla verifica della nozione di orario di lavoro retribuibile (ai fini del calcolo della contribuzione dovuta), nell’ambito del quale si discute se debba essere computato il tempo impiegato dai dipendenti per raggiungere il posto di lavoro, dopo aver marcato il cartellino alla portineria dello stabilimento, così come il tempo trascorso all’interno dell’acciaieria dopo il turno. Il quadro normativo applicabile si può distinguere in due diversi periodi.
Sino al 28 aprile 2003, il Rdl 5 marzo 1923, n. 692 (art. 3) considerava lavoro effettivo ogni lavoro che avesse richiesto un’occupazione assidua e continuativa, escludendo dunque da tale ambito le occupazioni discontinue o di semplice attesa e custodia (erano dunque esclusi i riposi intermedi, il tempo impiegato per recarsi sul posto di lavoro, le soste di lavoro non inferiori a dieci minuti e complessivamente non superiori a due ore (cfr. il Regolamento di attuazione emanato con r.d. n. 1955/1923).
La successiva normativa del 2003 (art. 1, comma 2, lettera a del Dlgs 66/2003) definisce orario di lavoro qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività e delle sue funzioni, così comprendendo in questo ambito anche le operazioni funzionali alla prestazione nelle quali il lavoratore sia a disposizione del datore di lavoro. In entrambi i casi, non è stabilito in positivo quale sia il tempo di lavoro retribuibile, quanto il limite massimo della durata del lavoro. Dunque non è escluso l’assoggettamento a contribuzione anche del tempo che attiene allo svolgimento di attività oggettivamente prodromiche, oltre che necessarie e obbligatorie, per lo svolgimento dell’attività lavorativa (concetto più esteso rispetto a quello essenziale legato alla prestazione effettiva). E la stessa normativa europea indicata (artt. 5 e 10 della Direttiva Ue n. 104/1999) riguarda i profili incidenti sulla salute e sicurezza dei lavoratori e dunque si occupa dell’orario di lavoro limitatamente alla previsione di limiti massimi e non per le questioni legate all’imponibile contributivo.
Ecco dunque che la questione assume valenza esclusivamente probatoria di elementi in fatto; in particolare occorre ricostruire l’ampiezza dell’obbligo contributivo in relazione al principio della corrispondenza con la prestazione di lavoro, alla luce dei principi generali sulla retribuzione imponibile che impongono al datore di lavoro la dimostrazione del fatto che le somme erogate al prestatore di lavoro in dipendenza del rapporto in realtà, per un qualche motivo, sono esenti da contribuzione.
Pertanto, la semplice presenza in azienda del lavoratore fa presumere il collegamento di questa circostanza con l’attività lavorativa, a meno che il datore di lavoro non dimostri in quale misura il lavoratore, in quel contesto, non sia sottoposto al potere gerarchico o al controllo del datore, alla stregua di un fatto impeditivo. Una volta varcato il cancello dello stabilimento dove si svolge l’attività lavorativa, si presume che il tempo trascorso all’interno sia connesso alla disponibilità del lavoratore nei confronti del datore di lavoro: il tempo impiegato per raggiungere il luogo effettivo di lavoro rientra nell’attività lavorativa vera e propria nella misura in cui lo spostamento sia funzionale alla prestazione. Sarà onere del datore di lavoro dimostrare il contrario, in quanto una volta all’interno del luogo di lavoro, a seguito dell’attestazione della presenza, il lavoratore avrà assolto l’obbligo di mettere a disposizione le proprie energie lavorative, con corrispettivo obbligo di remunerare il tempo impiegato non solo per lo svolgimento delle mansioni affidate, in senso stretto, ma anche per l’espletamento delle attività prodromiche ed accessorie a quello svolgimento.
Da qui, il principio che emerge da queste indicazioni: l’orario di lavoro costituisce un concetto ampio nel quale deve comprendersi l’intero arco temporale comunque trascorso all’interno dell’azienda, a meno che il datore di lavoro non provi che il prestatore d’opera sia comunque libero in quel contesto di autodeterminarsi o comunque non sia assoggettato al potere gerarchico (non sia “disponibile”).