Sulla «231» la responsabilità della holding non è automatica

Sulla «231» la responsabilità della holding non è automatica

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Anche se tra i soggetti in capo ai quali può essere configurata la responsabilità amministrativa da reato il Dlgs 231/2001 non fa esplicito riferimento ai gruppi di impresa, ci si trova sempre più spesso di fronte a possibili configurazioni di responsabilità di società controllanti, controllate o collegate in caso di reati commessi all’interno di schemi societari articolati laddove la strutturazione societaria finisce con l’incidere, inevitabilmente, sui sistemi decisionali, gestionali e di controllo.

L’articolo 1 del Dlgs 231/2001 prevede, infatti, la possibile configurazione di responsabilità amministrativa in capo agli enti forniti di personalità giuridica e alle società e associazioni, anche prive di personalità giuridica, con esclusione dello Stato, degli enti pubblici territoriali, degli altri enti pubblici non economici nonché degli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale.

In assenza, dunque, di un riferimento normativo alla nozione del gruppo di impresa e in attesa di auspicabili interventi da parte dello stesso legislatore volti a chiarirne la portata, non sono ovviamente mancati dibatti sulla possibile interpretazione da attribuire alla predetta disposizione.

Gli orientamenti
In particolare, almeno fino al 2014 è prevalsa la tesi di coloro che ritenevano di dover includere il gruppo di imprese tra i soggetti elencati nel citato articolo 1 e conseguentemente di poter configurare la responsabilità per illeciti penali anche in capo alla holding. Su questo filone, il Tribunale di Milano, pronunciandosi sulla responsabilità 231 nei confronti di società appartenenti a un gruppo, ravvisò un “potere di fatto” della holding sulle controllate, individuando conseguentemente la stessa capogruppo come “mandante” rispetto agli illeciti commessi dalle o nelle controllate (Tribunale Milano 20 settembre 2004).

Negli anni successivi, tuttavia, la giurisprudenza di legittimità ha ristretto l’ambito di applicazione, ancorando l’eventuale responsabilità amministrativa delle società appartenenti a un gruppo alla prova di un preciso coinvolgimento delle medesime nella consumazione dei reati-presupposto o, quanto meno, nelle condotte che hanno determinato l’acquisizione di un illecito profitto e nel conseguimento di eventuali illeciti benefici anche non patrimoniali (Corte cassazione, sentenze 24583/2011, 4324/2013, 2658/2014).

La tesi di Confindustria
Nel 2014 è poi intervenuta Confindustria in occasione della diramazione delle «Linee Guida in materia di costruzione dei modelli di organizzazione, gestione e controllo», sostenendo un’interpretazione in linea con le ultime pronunce di legittimità.

In particolare, dedicando un paragrafo alla responsabilità per gli illeciti penali in seno ai gruppi di imprese, Confindustria ha sostenuto che il gruppo non può considerarsi diretto centro di imputazione della responsabilità da reato e non è inquadrabile tra i soggetti elencati nell’articolo 1 del Dlgs 231/2001. Non essendo infatti prevista alcuna disposizione che imponga in capo agli apicali della controllante l’obbligo giuridico e che conferisca i poteri necessari per impedire i reati nella controllata, non trova applicazione nel caso di controllo societario l’articolo 40, comma 2, del codice penalesecondo cui «non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo». Ne consegue dunque che l’attività di direzione e coordinamento non può comportare, di per sé, la responsabilità in capo ai vertici della controllante dell’omesso impedimento dell’illecito commesso nell’attività della controllata, a meno che i soggetti apicali della capogruppo, ingerendosi in modo sistematico e continuativo nella gestione della controllata, non fossero di fatto amministratori della stessa.

Successivamente all’intervento di Confindustria, la Corte suprema è nuovamente intervenuta sul tema, precisando che al fine di configurare la responsabilità ai sensi del Dlgs 231/2001 della holding o di altra società appartenente a un medesimo gruppo non è sufficiente l’enucleazione di un generico riferimento al gruppo, ovvero a un cosiddetto generale «interesse di gruppo». La holding e/o le altre società facenti parte di un gruppo possono, infatti, essere chiamate a rispondere del reato commesso nell’ambito dell’attività di una società controllata appartenente al medesimo gruppo, purché nella consumazione del reato presupposto concorra almeno una persona fisica che agisca per conto della holding stessa o dell’altra società facente parte del gruppo, perseguendo anche l’interesse di queste ultime (Cassazione, sentenza n. 52316/2016).