Reato AUTORICICLAGGIO – Ex art. 648 TER C.P.
L’articolo 648 ter c.p., introdotto dalla legge n. 186 del 2014, è poco compatibile con quel principio fondamentale del nostro ordinamento giuridico rappresentato dal ne bis in idem, posto il concreto pericolo della proliferazione di sanzioni per uno stesso reato cui potrebbe portare una errata interpretazione della norma.
Sotto questo aspetto, per le società l’inserimento dell’autoriciclaggio nell’elenco dei reati presupposto della responsabilità amministrativa prevista dal D.Lgs. 231/01 potrebbe rivelarsi estremamente pericoloso perché difficilmente controllabile: la considerazione prende le mosse dall’essere ora considerato il reato tributario, attualmente non presente nei reati presupposto della normativa qui in commento, come presupposto dell’autoriciclaggio.
Per le persone giuridiche si arricchisce il sistema sanzionatorio quasi all’eccesso perché più di ogni altro soggetto vengono a cumularsi una pluralità di sanzioni: quella amministrativa; quella penale per il reato-base; quella penale per l’autoriciclaggio; quella amministrativa da D.Lgs. 231/2001 a carico dell’impresa.
Già la Corte europea dei diritti dell’uomo, occupandosi della disciplina italiana in materia di market abuse ha avuto modo di censurare la proliferazione di livelli sanzionatori per un’unica condotta illecita.
Oggi lo stesso censurabile sistema viene invece riprodotto in misura paragonabile da quella attuale dell’autoriciclaggio.
Sicché la nuova fattispecie impatta sulle imprese e sulle prospettive di adeguamento dei modelli organizzativi.
Intanto non è affatto chiaro quale sia il collegamento tra autoriciclaggio e responsabilità delle società: il legislatore, infatti, non ha specificato in quale modo deve essere inteso il generico riferimento al «delitto non colposo» come reato base dell’autoriciclaggio.
Infatti, recita l’art. 648-ter.c.p. “Impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita“: “Chiunque, fuori dei casi di concorso nel reato e dei casi previsti dagli articoli 648 e 648 bis, impiega in attività economiche o finanziarie denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto, è punito con la reclusione da quattro a dodici anni e con la multa da euro 5.000 a euro 25.000. La pena è aumentata quando il fatto è commesso nell’esercizio di un’attività professionale.
La pena è diminuita nell’ipotesi di cui al secondo comma dell’art. 648.
Si applica l’ultimo comma dell’articolo 648”.
Sicché è difficile comprendere se l’eventuale responsabilità dell’ente è limitata ai casi in cui il reato base rientra tra i reati presupposto di cui al D.Lgs. 231/2001, ovvero se essa possa configurarsi anche in presenza di fattispecie diverse.
La questione non è di poco conto se solo si pone attenzione al dato oggettivo che virtualmente un reato tributario determinando per la sua natura un risparmio d’imposta che resterebbe incasellato al risultato di esercizio, potrebbe essere automaticamente reimpiegato nell’attività d’impresa con il concreto rischio di doppia sanzione una per reato fiscale e l’altra per autoriciclaggio.
Va da sé che in tali casi si assisterebbe ad una pericolosa estensione della categoria dei reati base che finirebbe giocoforza, per minare lo stesso sistema di prevenzione costruito per il tramite di quegli strumenti, quali i modelli di organizzazione, gestione e controllo ex D.Lgs. 231/2001, che evidentemente perderebbero di efficacia esimente per incapacità di prevenire il rischio reato.
Ecco perché, in definitiva, possono e devono essere considerati reati base ai fini dell’autoriciclaggio solo quelli compresi nell’elenco attuale dei reati presupposto dal D.Lgs. 231/2001.
Diversamente opinando sarebbe minato il sistema legislativo alla base della responsabilità amministrativa degli enti che non ammette, visto il numerus clausus dei reati ivi previsti che può essere variato solo previa esplicita disposizione normativa, una lista dei reati presupposto potenzialmente illimitata per effetto del rinvio a una serie di reati non colposi non indicati in maniera esplicita che, peraltro, comporterebbero una gravissima violazione del principio giuridico del divieto del ne bis in idem ovvero il non essere puniti due volte (o più volte) per la medesima violazione.