Licenziamenti, la disputa sul «fatto» come differenza tra indennizzo e reintegrazione

Licenziamenti, la disputa sul «fatto» come differenza tra indennizzo e reintegrazione

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Due sentenze della Cassazione (20540 e 20545, entrambe del 13 ottobre 2015) hanno rilanciato il dibattito sulla nozione di “fatto contestato al lavoratore” nel licenziamento disciplinare, la cui sussistenza o meno segna il confine tra reintegrazione e indennizzo.

Le sentenze riguardano il regime applicabile ai lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015, ovvero l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, così come riscritto dalla legge Fornero. Tuttavia le questioni che pongono non sono prive di riflessi sulla nuova disciplina dei licenziamenti introdotta dal Jobs act. Ma andiamo con ordine.

La riforma Fornero ha infranto il tabù della reintegrazione quale inevitabile conseguenza dell’illegittimità del licenziamento, potendo quest’ultima produrre anche solo conseguenze risarcitorie. Nel licenziamento per ragioni soggettive, la scelta tra le due sanzioni (ripristinatoria o indennitaria) è legata alla sussistenza/insussistenza del fatto contestato al lavoratore oppure alla previsione nel contratto collettivo, per il comportamento in questione, di una sanzione conservativa.

Sul primo dei due criteri selettivi, si è subito aperto in giurisprudenza un vivace dibattito. Alcuni giudici hanno esteso (non senza qualche forzatura) il concetto di “fatto contestato” sino a ricomprendervi molti elementi di contesto, dalla valutazione dell’elemento soggettivo (dolo o colpa e intensità dei medesimi) fino alla gravità dell’inadempimento.

Si è detto, al riguardo, che assumerebbe rilievo il “fatto giuridico”, e non il mero fatto materiale. Per tale via si arriva, però, a privare di effetto la riforma, dilatando i confini della tutela reintegratoria sino al punto di non lasciare pressoché alcuno spazio a quella indennitaria. Il che è l’esatto contrario di ciò che la riforma si proponeva.

Una prima sentenza della Cassazione (la 23669 del 6 novembre 2014) ha invece proposto una lettura più rigorosa e coerente della norma, affermando che, ai fini della selezione del rimedio da applicare, la verifica di sussistenza/insussistenza del fatto va operata con riferimento al fatto materiale posto a fondamento del recesso, senza margini per valutazioni discrezionali e a prescindere da ogni valutazione circa la proporzionalità della sanzione rispetto al comportamento contestato.

Proprio questa sentenza sembra aver offerto al legislatore del Jobs act lo spunto per definire, in maniera più precisa di quanto avesse tentato di fare la riforma Fornero, il confine tra reintegrazione e indennizzo nel licenziamento disciplinare. Nel nuovo contratto a tutele crescenti, infatti, quando si tratta di delimitare i casi di possibile reintegrazione, viene utilizzata l’espressione «insussistenza del fatto materiale», precisando ulteriormente che ad essa «resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento». Nel nuovo regime, dunque, è fuor di dubbio che il licenziamento illegittimo perché sproporzionato rispetto alla mancanza contestata non possa essere sanzionato con la reintegrazione, neppure in caso di inadempienza di lieve entità.

Ma alle stesse conclusioni deve giungersi, secondo la sentenza 23669, anche in caso di applicazione della disciplina precedente, che vale per chi era già assunto prima del 7 marzo 2015. L’unica differenza, dunque, sarà il rilievo da attribuirsi, in quest’ultimo caso, alla sproporzione sancita in via generale dai contratti collettivi e dai regolamenti aziendali.

In questo quadro, le due più recenti sentenze della Cassazione, a ben vedere, non contrastano la tesi del “fatto materiale”, ma aggiungono ulteriori elementi di interpretazione, suscettibili tuttavia di dare spazio a qualche margine di discrezionalità nella sua valutazione. La prima (20540/2015), in particolare, introduce il tema della irrilevanza disciplinare del fatto, per concludere che un fatto sussistente ma non suscettibile di alcuna (sia pur minima) sanzione equivale a un fatto insussistente. Non di proporzionalità dunque si tratta, come nota espressamente la sentenza stessa, ma di completa irrilevanza giuridica del fatto.

La reintegrazione può quindi essere applicata, secondo il principio affermato da questa sentenza, oltre che in caso di insussistenza materiale del fatto, anche qualora il fatto sussista ma sia completamente privo di qualsiasi rilievo disciplinare. Un’ipotesi, per il vero, che, pur aprendo in qualche misura a valutazioni discrezionali del giudice, appare non così frequente nella realtà.