Licenziamenti disciplinari, se i fatti sono già accertati non va atteso l’esito del procedimento penale
Quando i fatti che costituiscono illecito disciplinare hanno anche rilevanza penale la tempestività della contestazione e del successivo licenziamento disciplinare va valutata in relazione al momento in cui i fatti a carico del lavoratore sono stati ragionevolmente accertati dal datore di lavoro, a prescindere e indipendentemente dall’eventuale (e autonomo) procedimento penale.
Lo ha stabilito la Corte di cassazione con la sentenza n. 7031/15 , depositata in data 11 aprile 2016, con la quale ha affermato che “la rilevanza penale dei fatti non fa venire meno l’obbligo di immediata contestazione, in considerazione della rilevanza che esso assume rispetto alla tutela dell’affidamento e dei diritto di difesa dell’incolpato, sempre che i fatti riscontrati facciano emergere, in tema di ragionevole certezza, significativi elementi di responsabilità a suo carico”. Ne consegue, quindi, che “non può ritenersi giustificato il differimento della contestazione di fatti già noti, ove esso sia determinato dalla volontà del datore di lavoro di acquisirne la valutazione in sede penale, e in particolare di acquisirne il formale inquadramento (…) tale incremento di conoscenza restando ininfluente, per la reciproca autonomia dei procedimenti penale e disciplinare, in presenza di condotte che risultino già adeguatamente percepite dal datore di lavoro tanto sul versante della loro realtà storica e fattuale, come su quello del loro disvalore etico e sociale”.
Il caso riguardava un dipendente licenziato al termine di un procedimento disciplinare avviato solo dopo la sentenza che lo aveva condannato a tre anni e otto mesi di reclusione per il reato di usura commesso in danno di altro dipendente. I giudici dell’appello, ribaltando la sentenza di primo grado, avevano ritenuto che la contestazione disciplinare non fosse tempestiva, non soltanto perché il datore di lavoro aveva già sospeso il lavoratore prima della sentenza e dopo l’ordinanza limitativa della libertà personale, ma perché, ancor prima, aveva raccolto le ammissioni del dipendente in sede di accertamento interno, ed era quindi a conoscenza dei fatti.
Chiamata a decidere, la Corte ha confermato la sentenza di appello e ha riaffermato il principio di autonomia del procedimento disciplinare rispetto al giudizio penale: principio che non solo consente, ma addirittura impone al datore di lavoro – pena la illegittimità della sanzione – di procedere con tempestività alla contestazione dei fatti quando essi rivestano valenza (anche) sul piano lavoristico, e risultino ragionevolmente e sufficientemente provati.
Nella sentenza non si fa peraltro alcuna menzione delle clausole della contrattazione collettiva, che spesso prevedono la facoltà del datore di lavoro di sospendere il dipendente in attesa della sentenza la sentenza penale. E’ un segnale che per i Giudici simili clausole non valgono comunque ad elidere l’esigenza di tempestività?
Resta la difficoltà di coordinare la tempestività della contestazione con la buona fede, la correttezza e la tutela dell’affidamento del lavoratore incolpato. Non potendo a priori sapere come deciderà sugli stessi fatti il Giudice penale, il datore potrebbe trovarsi in un paradosso da “comma 22”, con il rischio di sbagliare anche laddove prediliga la strada “garantista”. Non è una Giustizia per indecisi.