Attenti ai post, possono costare il lavoro
A volte può bastare un post – o anche un tweet – per essere licenziati. Ma altre volte, invece, i dipendenti troppo “disinvolti” nel citare sui social network il datore di lavoro o i colleghi vengono “salvati” dai giudici. Negli ultimi anni sempre più spesso l’utilizzo dei social network sui luoghi di lavoro è entrato nelle aule dei tribunali, con risultati non sempre scontati né uniformi. Se infatti la partita si gioca spesso sul filo del diritto di critica, le interpretazioni rischiano – a volte – di essere soggettive.
Così, per il Tribunale di Busto Arsizio (sentenza 62/2018) sono sufficienti i pochi caratteri dei tweet per ledere l’immagine del datore di lavoro e «rendere esplicito un atteggiamento di disprezzo verso l’azienda e i suoi amministratori». Il fatto è stato commesso ai danni di una compagnia aerea quando esisteva ancora il limite dei 140 caratteri (oggi passati a 280): sufficienti, per il giudice, per ritenere leso il rapporto fiduciario con l’azienda. Il diritto di critica ha infatti dei precisi requisiti che, se varcati, possono ledere il vincolo di fedeltà alla base dei rapporti di lavoro.
Sotto la lente dei giudici finiscono gli obblighi di diligenza e fedeltà prescritti dagli articoli 2104 e 2105 del Codice civile e reinterpretati alla luce dell’attività social del lavoratore. I toni del dipendente devono essere sempre quelli di una comunicazione non offensiva né ingiuriosa che resti nei limiti di un dialogo costruttivo.
Così è stata reintegrata l’allieva dell’aeronautica militare ritratta su Facebook mentre simulava una sfilata di moda, seguita dall’affermazione «È così che si lavora», rivolta al proprio datore di lavoro. Per il giudice, l’atteggiamento è provocatorio ma non abbastanza da portare al licenziamento. È andato oltre, invece, il dipendente che, sfogandosi su Facebook, dava ripetutamente del «lecchino» e della «pecora» al collega. Rientra invece nel diritto di critica pubblicare un articolo che riguarda la propria azienda e commentarlo “genericamente”, affermando che «padroni così meritano solo disprezzo». E il Tribunale di Milano (sentenza 3153/2017) ha ritenuto la parola «bastardo» non diffamatoria, ma una semplice espressione di disistima.
Un quadro confuso, insomma, in cui i lavoratori continuano a postare, assumendosi i rischi. Nel frattempo i contratti collettivi e le policy aziendali si stanno evolvendo, prevedendo sanzioni disciplinari per le violazioni più ricorrenti commesse dai dipendenti che navigano sui social. Il contratto collettivo che regolamenta il trasporto aereo prevede la sospensione per il pilota che «leda l’immagine della compagnia utilizzando i social network in modo inappropriato»; mentre scatta il licenziamento con preavviso quando la lesione è considerata «grave». Un cortocircuito nel quale finiscono i giudici.
Di certo c’è che le policy aziendali devono essere conosciute dal dipendente e le condotte contestate tempestivamente. Il ritardo nell’addebito pesa sull’azienda che non potrà irrogare sanzioni se le contestazioni sono generiche. Ad esempio, si salva la commessa accusata – senza prove sufficienti – di essere sempre connessa a Facebook dal proprio smartphone. La genericità del post salva il lavoratore in tutti i casi in cui l’azienda non è direttamente identificata e assume rilievo dirimente il ruolo ricoperto dal lavoratore all’interno dell’azienda. Se è tollerata la critica del sindacalista, lo è meno quella del dirigente o dell’addetto marketing: mano a mano che sale il ruolo ricoperto diminuisce la clemenza dei tribunali. Per la Cassazione il sindacalista che scambia in chat una vignetta satirica sulla propria azienda non deve essere licenziato (sentenza 2499 del 31 gennaio 2017).
Dubbia poi la rilevanza delle condotte extralavorative postate sui social. Per i giudici possono condurre al licenziamento se molto gravi e allarmanti, come nel caso del lavoratore licenziato per aver pubblicato sue fotografie con armi (Tribunale di Bergamo, sentenza del 24 dicembre 2015).
Non mancano, poi, le discussioni sull’attendibilità delle prove portate dal datore. I lavoratori in tribunale contestano sempre più spesso la paternità dei post, sostenendo di lasciare incustoditi smartphone e tablet. Per i giudici, se non c’è prova dell’accesso abusivo, lo screenshot dei contenuti pubblicati sui social basta a dimostrarne la paternità, almeno quando le frasi sono verosimili e rafforzate da testimoni.
Tuttavia, non c’è scampo per il dipendente che si affretta a rimuovere le tracce delle proprie navigazioni in rete durante un’ispezione dell’azienda. Può essere licenziato perché il datore può effettuare verifiche sui propri computer: non si tratta di controlli a distanza ma di una verifica lecita sugli strumenti di lavoro che non deve essere ostacolata dal dipendente (Cassazione, sentenza 22313 del 3 novembre 2016).